Un'occasione mancata o un primo passo verso il cambiamento?

L'Italia invecchia rapidamente: con oltre 14 milioni di over 65 e circa 4 milioni di persone non autosufficienti, la riforma del sistema di assistenza agli anziani non è più rinviabile. La Legge delega 33/2023 prometteva una svolta epocale, un riordino organico che avrebbe dovuto trasformare l'approccio alla terza età, dall'invecchiamento attivo all'assistenza integrata. A un anno di distanza, con il decreto legislativo 29/2024 in vigore da marzo, è tempo di bilanci: cosa è stato davvero realizzato e cosa rimane sulla carta?

Le ambizioni della Legge delega: una visione sistemica

La Legge 33/2023 nasceva con obiettivi ambiziosi. Non si trattava solo di assistere gli anziani fragili, ma di ripensare l'intero percorso dell'invecchiamento. La delega al Governo delineava un sistema integrato che avrebbe dovuto abbracciare prevenzione della fragilità, invecchiamento attivo e assistenza continuativa per i non autosufficienti.

Il cuore della riforma ruotava attorno a tre pilastri fondamentali. Primo, la creazione di percorsi integrati sociosanitari che superassero la storica frammentazione tra servizi sociali comunali e prestazioni sanitarie regionali. Secondo, l'introduzione del "budget di cura" come strumento innovativo per concentrare e ottimizzare tutte le risorse disponibili - pubbliche, private e familiari - attorno al progetto di vita della persona anziana. Terzo, il riconoscimento formale del ruolo del caregiver familiare, figura centrale ma fino ad oggi invisibile nel sistema di welfare.

La legge delega immaginava un Paese dove l'anziano non dovesse più navigare tra sportelli diversi, dove le risorse fossero coordinate in un progetto personalizzato e dove chi si prende cura dei propri cari ricevesse sostegno concreto e riconoscimento sociale.

Il decreto attuativo: luci e ombre della concretizzazione

Il decreto legislativo 29/2024 ha tradotto in norme operative parte di questa visione, introducendo novità significative che cambiano, almeno sulla carta, l'architettura del sistema.

La valutazione multidimensionale unificata e i Punti Unici di Accesso (PUA) rappresentano forse l'innovazione più concreta. Non più percorsi separati tra sociale e sanitario, ma un accesso integrato dove l'anziano viene valutato nella sua complessità per definire un Progetto Assistenziale Individuale (PAI). Questo significa, in teoria, la fine della rincorsa tra ASL e servizi sociali comunali, con un unico punto di riferimento per famiglie e operatori.

Il decreto introduce formalmente il budget di cura, definendolo come lo strumento che ricompatta risorse sanitarie, sociali, familiari e del terzo settore all'interno del PAI. Non si tratta necessariamente di un assegno diretto alla famiglia, ma di una programmazione integrata delle risorse disponibili per ottimizzare gli interventi. Il caregiver familiare può ora partecipare alla valutazione e alla definizione di questo budget, acquisendo un ruolo formale nel processo di cura.

Significativo anche il riconoscimento esplicito del caregiver familiare, con la previsione di misure di sostegno che spaziano dalle agevolazioni contributive e fiscali alle misure previdenziali. Il decreto prevede inoltre una prestazione universale sperimentale per gli anziani più fragili, vincolata a servizi domiciliari e sottoposta a requisiti ISEE stringenti.

Sul fronte della formazione, il testo normativo sottolinea la necessità di percorsi specialistici e formazione continua per operatori sociali e sociosanitari, demandando però l'attuazione pratica a intese Stato-Regioni e piani formativi regionali.

Le promesse mancate: quando la riforma si svuota

Tuttavia, analizzando nel dettaglio il decreto, emergono criticità sostanziali che rischiano di svuotare la riforma delle sue potenzialità trasformative.

La più evidente riguarda l'assistenza domiciliare. La legge delega prometteva un nuovo servizio domiciliare nazionale progettato specificamente per la non autosufficienza. Nel decreto, questa trasformazione si è ridotta a linee guida e principi generali. Mancano un piano operativo nazionale dettagliato e modalità di finanziamento chiare per creare un sistema domiciliare uniforme sul territorio. Il risultato è che ogni Regione continuerà probabilmente a muoversi in ordine sparso, perpetuando le disuguaglianze territoriali che la riforma avrebbe dovuto superare.

Il budget di cura, presentato come innovazione centrale, rimane un concetto generico. Non esistono criteri operativi nazionali su come distribuire le risorse, quale percentuale debba coprire il Servizio Sanitario Nazionale rispetto alle risorse personali o comunali, né standard per omogeneizzare i massimali tra Regioni. Questa vaghezza normativa lascia ampi margini di interpretazione locale, con il rischio concreto che il budget di cura diventi l'ennesima prestazione a geometria variabile sul territorio nazionale.

La questione dei finanziamenti rappresenta il vulnus più grave. Il decreto non chiarisce le coperture economiche necessarie per implementare le riforme previste. Senza risorse aggiuntive certe e vincolate, molte delle innovazioni rischiano di rimanere sulla carta o di essere realizzate solo nelle Regioni più virtuose e con maggiori disponibilità economiche.

Inoltre, molte misure cruciali sono rimandate a successivi decreti attuativi o accordi Stato-Regioni: l'elenco delle prestazioni di telemedicina, gli standard formativi per gli operatori, i criteri di accesso alla prestazione universale, le tabelle per definire i livelli di bisogno e i massimali di budget. Questo rinvio sine die di aspetti operativi essenziali genera incertezza e rallenta l'implementazione concreta della riforma.

L'impatto sul campo: cosa cambia davvero

Per comprendere l'effettivo impatto della riforma, occorre analizzare cosa cambierà concretamente per i diversi attori coinvolti.

Gli operatori sociali e sociosanitari si troveranno a lavorare con nuovi strumenti - PUA, valutazioni multidimensionali, PAI - che richiederanno formazione specifica e coordinamento tra servizi tradizionalmente separati. La sfida sarà superare resistenze organizzative e culturali radicate, in assenza di linee guida operative dettagliate e con risorse formative che dipenderanno dalle singole Regioni.

Le famiglie e i caregiver vedono riconosciuto formalmente il proprio ruolo, con la possibilità di partecipare attivamente alla definizione del progetto assistenziale. Tuttavia, l'accesso effettivo a risorse economiche o servizi aggiuntivi dipenderà fortemente dal contesto regionale e dai criteri di selezione locali. Il riconoscimento formale rischia di tradursi in un diritto senza sostanza se non accompagnato da risorse concrete.

Per Comuni e ASL, la riforma impone una riorganizzazione dei servizi e delle modalità di presa in carico, ma senza certezze sulle risorse disponibili per implementare i cambiamenti. Il rischio è che i PUA diventino l'ennesimo sportello senza reale integrazione operativa, e che il budget di cura si riduca a una ripartizione contabile delle risorse già esistenti.

Il terzo settore, teoricamente valorizzato come componente del sistema integrato, si trova di fronte all'opportunità di un coinvolgimento più strutturato ma anche all'incertezza sui meccanismi di finanziamento e sulle modalità di integrazione nei PAI.

La frammentazione territoriale: il rischio più concreto

L'assenza di standard nazionali vincolanti su finanziamenti, prestazioni e organizzazione dei servizi apre la strada a una pericolosa frammentazione territoriale. Regioni come Emilia-Romagna, Lombardia o Veneto, che già dispongono di sistemi di welfare locale più sviluppati e risorse maggiori, potranno probabilmente implementare la riforma in modo più completo. Al contrario, le Regioni del Sud, già penalizzate da minori risorse e servizi meno strutturati, rischiano di vedere ampliarsi ulteriormente il divario.

Questo scenario contraddice lo spirito stesso della riforma, che mirava a garantire livelli essenziali di assistenza uniformi su tutto il territorio nazionale. Il paradosso è che una riforma nata per superare le disuguaglianze potrebbe finire per cristallizzarle ulteriormente.

Una riforma incompiuta che richiede coraggio politico

Il decreto legislativo 29/2024 rappresenta indubbiamente un passo avanti nel riconoscimento dei diritti degli anziani non autosufficienti e dei loro caregiver. L'introduzione di strumenti come il budget di cura e i PUA, il riconoscimento formale del caregiver, la visione integrata dell'assistenza sono elementi positivi che vanno nella direzione giusta.

Tuttavia, senza un piano di finanziamento adeguato, criteri operativi nazionali chiari e meccanismi di monitoraggio e valutazione dell'implementazione, la riforma rischia di rimanere una "scatola vuota", un'architettura normativa priva di contenuto sostanziale. La vera sfida non è più normativa ma politica ed economica: serve il coraggio di investire risorse significative nell'assistenza agli anziani, superando la logica emergenziale per costruire un sistema strutturale e sostenibile.

Il tempo dirà se questa riforma sarà ricordata come un'occasione mancata o come il primo passo di una trasformazione necessaria. La differenza la faranno le scelte concrete dei prossimi mesi: i decreti attuativi ancora mancanti, le risorse che verranno stanziate nelle prossime leggi di bilancio, la capacità di Stato e Regioni di collaborare per un'implementazione uniforme.

L'Italia che invecchia non può permettersi di aspettare ancora. Le famiglie che ogni giorno si confrontano con la non autosufficienza di un proprio caro hanno bisogno di risposte concrete, non di promesse. La riforma c'è, ora serve la volontà politica di renderla realtà.